Ridurre quanto si è verificato ieri sui mercati finanziari ad un temporale estivo può sembrare semplicistico, se non altro perché, per quanto riguarda la meteorologia, le cause, in fondo, sostanzialmente vanno ricercate in un’unica motivazione, vale a dire l’elevata temperatura, che va evaporare l’acqua, che, salendo in quota, dove si scontra con temperature più rigide, si condensa, fino a formare cristalli di ghiaccio, che ricadono al suolo con una violenza a volte distruttrice.
Nel caso, invece, dei mercati le ragioni sono ben più d’una, concomitanza che rende “l’acquazzone” più eccezionale e quasi incontenibile.
Non a caso oggi sono in molti ad usare la definizione di “tempesta perfetta”, a significare come una serie di eventi, non necessariamente concatenati, abbia determinato una giornata che, almeno per qualcuno (Giappone) rimarrà negli annali.
Partiamo proprio dal “Sol Levante”: per trovare un’altra seduta così drammatica dobbiamo tornare indietro di 37 anni, al famoso “lunedì nero” delle borse mondiali (quando Wall Street, in un giorno solo, arrivò a perdere oltre il 22% del proprio valore). Ieri, per quanto grave, la caduta è rimasta, almeno per quelle dimensioni, isolata (alcune borse orientali, come Taiwan, ieri hanno sfiorato quei livelli, ma, a livello globale, gli indici hanno mediamente lasciato sul terreno tra il 2 e il 3%, perdite tutto sommato “emotivamente” gestibili). La ragione va sostanzialmente ricercata nel così detto “carry trade”, vale a dire “l’arbitraggio” valutario: un fenomeno che si verifica quando i rendimenti tra un Paese e l’altro, e quindi tra una valuta e l’altra, sono talmente differenziati da portare gli investitori a vendere una valuta per acquistarne un’altra che consente rendimenti ben maggiori. E’ quello che, negli ultimi anni, si è verificato con lo yen, che non a caso ha raggiunto, verso metà luglio, il minimo da circa 38 anni verso $. Se non che, con una “giravolta” che ha colto di sorpresa non pochi operatori, la Bank of Japan ha deciso, in pochi giorni, di alzare un paio di volte i tassi, portandoli sino all’attuale 0,25%. Una mossa che ha “sparigliato” le carte, che ha fatto “volare” lo yen (che, infatti, nell’arco di una ventina di giorni, ha recuperato oltre il 12% del proprio valore), costringendo molti a “chiudere”, come si suo dire, le posizioni appena aperte per evitare perdite maggiori. Di fatto, si erano indebitati in yen, confidando che avrebbe ulteriormente perso valore, acquistando asset in $: si sono, invece, ritrovati con un $ più debole (verso yen), e quindicon una perdita piuttosto importante. Cosa che li ha spinti in fretta e furia, appunto, a “chiudere” le posizioni: e in quei momenti si vende tutto, incuranti delle prospettive che alcuni asset possono avere nel medio termine: l’importante è limitare i danni.
Questa la ragione del crollo di Tokyo. Che sa sola, però, non basta a spiegare tutto.
Si sa quanta importanza abbiano assunto, oramai, i dati da cui, un giorno sì e un giorno no, viene subissati. In un recente passato, a dire il vero, è valsa la regola del “tanto peggio tanto meglio”: più erano negativi, più i mercati, paradossalmente, reagivano positivamente, ritenendo che, a quel punto, le Banche Centrali avrebbero dovuto allentare la presa, mettendo in atto politiche monetarie meno restrittive.
La settimana scorsa, invece, alla lettura di numeri che hanno lasciato intendere che l’economia Usa è a rischio rallentamento (indice ISM manufatturiero in deciso peggioramento, aumento dei sussidi di disoccupazione, aumento della disoccupazione) ecco che il paradigma è cambiato, tornando, sotto certi aspetti, ai “parametrici economici”, come nei “casi di scuola”: se le cose non vanno bene in economia, non può essere che i mercati reagiscano infischiandosene, anzi, magari festeggiando. Ecco, quindi, che è tornata a farsi largo che forse non era poi così vero che la recessione (o l’hard lending) è così lontana dal verificarsi, portandosi dietro una serie di “malore”: in primis disoccupazione, ma anche riduzione dei consumi, e con lei diminuzione degli utili aziendali, se non addirittura il loro azzeramento. E quindi, da lì alla considerazione che il mercato è caro il passo è breve: senza il sostegno degli utili il prezzo raggiunto da molti titoli è sproporzionato (il cosi detto p/e, meglio noto come rapporto prezzo/utili). E quindi tutti a vendere, nella prospettiva che “la pacchia è finita”.
Allo stesso tempo, l’immobilismo degli organismi monetari (“in vacanza” sino a settembre) qualche certezza l’ha tolta. I tassi sono rimasti a livelli che molti ritengono pericolosamente elevati vista la congiuntura economica: cosa che equivale ad una sorta di harakiri, che zavorra i nuovi investimenti, riduce i margini e allontana la ripresa. Un rigore monetario che si accompagna anche una diminuzione della liquidità in circolazione, a partire dalla Federal Reserve americana. Ecco, quindi, che oggi in molti si augurano che Powell, incurante dell’estate e, soprattutto, “dell’avvertimento” di Trump di non toccare i tassi (per non avvantaggiare i democratici), decida per un “provvedimento d’urgenza”, anticipando quello che oramai sembra certo (vale a dire una riduzione a settembre). Una scelta che, peraltro, avrebbe delle implicazioni “psicologiche” non indifferenti: se dovesse, stravolgendo ogni attesa, anticipare la decisione (addirittura qualcuno avanza l’ipotesi di un taglio dello 0,50%), ciò significherebbe che la situazione è ben più grave di quanto sino ad oggi si pensava, togliendo nuova “benzina” ai mercati e spingendo gli investitori ad una maggior cautela (e quindi ad una minor partecipazione al rischio).
E proprio la “psicologia” può fare la differenza: l’emotività, come in ogni aspetto del quotidiano, riveste anche nel “pianeta investimenti” una certa importanza. Non lasciarsi travolgere dagli eventi, cercare di analizzare quanto sta succedendo, non farsi prendere dal panico (come in altri momenti dall’euforia, forse un male ancora peggiore), guidati sempre dalla logica che diversificare il proprio portafoglio è la miglior difesa, diventano elementi fondamentali in queste situazioni. Anche perché, come confermano i nuovi dati americani resi noti ieri, l’economia a “stelle e strisce” è ancora lontana dal fermarsi e ancor più dal “baratro recessivo”.
Dopo lo “shock” di ieri, da Tokyo arrivano notizie confortanti, con l’indice Nikkei che recupera, in questi minuti, oltre il 10%. Da un punto di vista macroeconomico, i salari reali sono aumentati per la 1° volta negli ultimi 2 anni, cosa che potrebbe spingere i consumi. In rialzo le borse di Seul (Kospi + 4,5%) e Taiwan (Taiex + 3,5%). Più riflessivi gli indici di Hong Kong e Shanghai, entrambi bloccati intorno alla parità.
Futures ben intonati, con rialzi diffusi tra l’1 e l’1,50%.
Da segnalare, dopo l’exploit di ieri, il passo indietro del Vix (– 14,8%), sceso sotto i 30 punti.
Petrolio poco mosso, con il WTI sempre intorno ai $ 74 (73,90).
Gas naturale Usa a $ 1,954 (+ 0,46%).
Oro a $ 2.424, sui livelli di ieri sera.
Spread a 145,2, con il BTP a 3,68%.
Bund a 2,18% (ma ieri era sceso sino a 2,07%).
Treasury a 3,85%.
€/$ a 1,093.
“Rivede la luce” il bitcoin: dopo che ieri era sceso sulla soglia dei $ 50.000, questa mattina prende fiato e si riporta verso i $ 56.000 (55.868).
Ps: nothing impossibile. Non si sta parlando di Douplantis, l’incredibile astista svedese che ieri è “volato” a mt 6,25, segnando l’ennesimo record del mondo (la sua progressione in questa specialità non è “umana”: ogni volta aumenta di 1 cm, e si ferma lì. Ma pare che in allenamento sia arrivato addirittura a mt 6,35, quasi un appartamento di 3 piani…), ma del “giro in bici” fatto da 2 amici di Venezia. In 100 giorni hanno percorso km 10.300, la distanza che separa la città lagunare da Pechino. Una vera e propria “via della seta”. Età dei 2 amici: 64 e 67 anni. Nothing impossiple, appunto.